La serie narra l’ascesa di Spotify facendola raccontare in ciascuna puntata da un protagonista diverso. Divertente, pur se piena di difetti, è capace di mettere in luce anche l’aspetto drammatico dello sfruttamento dei musicisti.
Quando Spotify è stato lanciato, nel 2008, l’industria musicale si trovava nel momento cruciale in cui non si poteva più rimandare la resa dei conti con Internet, ed era entrata in una crisi epocale, per molti irreversibile: le vendite dei CD crollavano, l’acquisto di file digitali non decollava, la pirateria sembrava inarrestabile. Anche se il settore non ha ancora trovato un vero equilibrio, ora i proventi dello streaming hanno di fatto sostituito la vendita delle copie fisiche e la pirateria è un fenomeno marginale. L’azienda svedese è stata una delle principali responsabili di questa trasformazione, di cui tuttavia hanno fatto le spese soprattutto i musicisti.
The playlist (su Netflix), produzione interamente svedese, non va visto come un docudrama sull’ascesa di Spotify: la vicenda è romanzata in maniera davvero sfacciata, nonostante si scenda spesso in dettagli anche piuttosto tecnici degli aspetti legali, informatici o finanziari. Si tratta, piuttosto, di una sorta di saggio audiovisivo che ricostruisce in maniera semplice ma efficace le correnti di pensiero di quel momento cruciale: l’idealismo informatico del primo web, l’inerzia delle case discografiche, il conflitto tra generazioni. Grazie a uno stile leggero, autoironico e ritmato, la serie riesce a essere divertente e a farsi perdonare i pur tanti difetti: le rocambolesche invenzioni narrative, la fotografia caramellosa, l’inutile vorticare della telecamera intorno agli attori, i luoghi comuni sulle startup.